Giuseppina Caserta
Sin da bambina, giocavo a trasformare le cose, a vederle in modo diverse da
come mi apparivano. Nella fantasia ricreavo il mondo immaginandomelo nei
suoi meravigliosi aspetti. Sono cresciuta in un clima creativo, in una sartoria di
moda tra pezze colorate e modelli di cartone appesi con lo spago al muro.
Questi furono per me bambina come una rivelazione, mi sembravano le parti
scomposte di una grande cattedrale che aspettavano di essere ricomposte
dall’abilità delle mani del sarto. Così il gioco creativo si è trasformato,
crescendo, per la vocazione per l’arte e quei cartoni erano stati per mela prima
idea di costruzione della forma.
Gli studi accademici mi hanno fornito la grammatica, ma in seguito, grazie all’incontro con l’artista francescano
Andrea Martini, ho dovuto fare uno sforzo a seguire l’intuizione creativa e riuscire ad
abitare la forma e a darle un respiro, un soffio, per liberare l’immagine
dall’impaccio del compiuto, del definito, del perfetto. Molte volte mi sono
chiesta cosa sia l’arte, o meglio cosa sia fare arte e solo nel lavoro trovavo la
risposta: la scultura per me è un’intenzione, è un andare in una direzione, è un
movimento interiore verso la realtà.
Forse è stata anche una necessità di riconciliare la libertà dello spirito con la finitezza della materia:
questa condizione oscillante è un pregio per l’artista, ma un limite per la persona.
Il tempo non avrebbe alcun senso senza la memoria, e elementi biografici
affiorano talvolta confusamente per dare forma creativa a tutto ciò che è stato
e non è più. Chi sono io, l’artefice che guida il lavoro dell’artigiano per creare
immagini, o sono solo la copia sbiadita di quelle stesse immagini?