Adriano Segarelli

Avevo più meno otto anni quando mi capitò fra le mani un vecchio catalogo di
Verdirosi. Ovviamente io ancora non potevo sapere cosa fosse la pittura, figuriamoci
un catalogo. Per un bambino di quell’età significa semplicemente guardare delle
immagini in maniera giocosa, nello stesso modo in cui guarderebbe un cartone
animato. Ma un certo punto mi sono reso conto che avevo smesso di giocare.
Guardavo quelle figure muoversi su scenari mistici, sospese su fondi scuri e profondi,
pieni di stelle e oggetti volanti. Verosimilmente non capivo quello che stavo
guardando, ma ne rimasi particolarmente attratto. Provai una certa suggestione.
Quel catalogo mi capitò fra le mani perché mio nonno, diversi anni prima, lavorava in
una bottega in piazza Mastai che produceva spalliere in ferro battuto e Verdirosi lì di
fronte aveva quella che fu la sua prima galleria. E così regalò a mio nonno un suo
disegno e quel catalogo. Lo stesso che ritrovai casualmente in mezzo ai miei
giocattoli.
Io ancora non lo sapevo, ma Verdirosi fu colui che introdusse in me il seme della
metafisica. Che aprì inconsapevolmente la breccia che mi avrebbe mostrato quella
strada. La strada che avrei percorso diversi anni dopo verso la mia ricerca artistica. 
E fu proprio dopo circa trent’anni, dopo che ormai anch’io ero diventato un artista, che
ripensai a quel catalogo e a quell’uomo che oggi potrei definire il mio maestro
spirituale. E così mi chiesi se dopo tutto quel tempo fosse ancora vivo. Lo cercai su
internet e gli scrissi un messaggio su un suo contatto trovato in rete, accompagnato
dal mio numero di telefono, raccontandogli questa storia. Con grande sorpresa dopo
qualche giorno ricevetti una sua telefonata e mi invitò nel suo studio. Mi trovai davanti
quell’uomo, quasi sulla novantina, con un’energia e una luce negli occhi che sapeva di
pura vitalità. Mi fece vedere tutto il suo lavoro e poi gli mostrai le mie opere. Le guardò
attentamente e fissandomi negli occhi mi disse: tu stai andando verso una metafisica
nuova. Verso la tua riconoscibilità’.
Ma arrivato a questo punto ho la necessità di fare un piccolo passo indietro. Perché
prima di arrivare a quella che sarebbe diventata la mia ricerca metafisica, ho
cominciato a dipingere solamente occhi. Pensando che lo sguardo fosse il primo
approccio tra tutti gli esseri viventi. Un qualcosa di primordiale, di ancestrale. Una
comunicazione che non ha bisogno di parole. 
Questi occhi col tempo divennero volti e poi figure intere che pian piano decostruivo in
un processo che avevo denominato “destrutturalismo interiore”. Un percorso
attraverso il quale cercavo di “montare” la figura umana per cercare di vederla dal
suo interno. Per trovare le sue emozioni più profonde.
Le figure cominciarono a diventare sempre più piccole in quella ricerca di sintesi che
credo appartenga ad ogni artista. Un’esigenza espressiva che sfociò in quello che
chiamai Metafisica delle ombre; Piccole sagome scure, in un luogo dall’atmosfera
surreale, alla ricerca di un punto luce che potesse indicare loro una via d’uscita. Una
risposta ai grandi quesiti dell’uomo. Piccole per mostrarci ciò che siamo nei confronti dell’universo,
ma nello stesso tempo per ricordarci che tutti insieme facciamo parte di esso.
Nella ricerca pittorica che susseguì, queste sagome cominciarono a svelarsi. Come se
improvvisamente avessero raggiunto finalmente la luce. La luce quindi diventa la
protagonista assoluta di tutta la composizione dell’opera. Comincia ad entrare con
prepotenza, squarciando spazi buii apparentemente vuoti. Ho iniziato ad eliminare
tutto ciò che sarebbe potuto essere visibile in una stanza o in un qualsiasi luogo non
definito, usando la luce appunto come uno strumento svelatore, contestualizzandola in
un concetto puramente metafisico. Il vuoto in questo caso diventa improvvisamente
pieno, attraverso la suggestione e il pensiero dell’osservatore. È lo stesso osservatore
a riempire quegli spazi con la sua immaginazione, riflettendo ciò che è custodito
dentro di sé direttamente sullo spazio che sta osservando, veicolato da quell’ingresso
istantaneo della luce che giunge ad evidenziare la sua visione.
Da un punto di vista tecnico l’esecuzione si è orientata verso uno studio approfondito
della luce usata nelle fotografie in bianco e nero e in quella dei palcoscenici teatrali.
Una luce teatrale, appunto, che entra violentemente nella scena mettendo in evidenza
i punti focali della rappresentazione.
Lo studio della sovrapposizione dei colori svolto con l’artista Anna Celestini e
l’apprendimento della tecnica dell’affresco nell’atelier Mariani, in quel periodo che
passai a Brescia proprio per questo scopo, hanno decisamente aiutato a sublimare il
mio linguaggio pittorico. Hanno formato in me un metodo di esecuzione, dove i colori
ad olio vengono stesi con la stessa rapidità di come si stendono i pigmenti per la
realizzazione di un affresco, conferendo poi al risultato finale un tratto rapido ma nello
stesso tempo definito.